Omelie Vescovo

Omelia del Vescovo per la Messa di ringraziamento con il canto del Te Deum

Solennità di Maria SS. Madre di Dio
Omelia per la Santa Messa di ringraziamento con il canto del Te Deum
Cattedrale di Cagliari, domenica 31 dicembre 2023

Carissimi in Cristo,

quante volte abbiamo pensato e detto, in queste ore: “un altro anno è passato”. La presa d’atto che è passato un altro anno, è legata, nella liturgia della Chiesa, al canto del Te Deum, che esprime la nostra preghiera di gratitudine e di supplica al Dio, Signore della storia. Come mai? A cosa ci educa il contare il tempo, ripartendolo in giorni, mesi e anni?

1. Contiamo la nostra vita per riconoscere la nostra nativa e strutturale fragilità. Siamo nati e moriremo, ciò vuol dire che sono fuori di noi l’origine e il destino dell’esistenza, il “da dove veniamo” e il “dove andiamo”. L’acuto sentimento della nostra insuperabilefinitudine non ci deprime ma ci apre alla certezza di essere creature di un Dio buono e grande, Signore del tempo e della storia, l’Eterno da cui proveniamo e al quale siamoorientati. Un salmo prega in questo modo: «Insegnaci a contare i nostri giorni / e acquisteremo un cuore saggio» (Sl 90,12). Il cuore saggio è quello che, contando i giorni, sa riconoscere il carattere fragile dell’esistenza: «Mille anni, ai tuoi occhi, / sono come il giorno di ieri che è passato, / come un turno di veglia nella notte. // Tu li sommergi: / sono come un sogno al mattino, / come l’erba che germoglia; // al mattino fiorisce e germoglia, / alla sera è falciata e secca»(Sl 90,4-6).Tale consapevolezza fa comprendere all’uomo la necessità di appoggiarsi a Dio: «Prima che nascessero i monti / e la terra e il mondo fossero generati, / da sempre e per sempre tu sei, o Dio» (Sl 90,2) e aprirsi con gioia alla dolcezza della sua presenza: «Saziaci al mattino con il tuo amore: / esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni» (Sl 90,14). L’esperienza della finitudine ci fa sentire che solo Dio è l’orizzonte totale che ci definisce realmente: «Potremmo dire molte cose e mai finiremmo, ma la conclusione del discorso sia: “Egli è il tutto!”» (Sir 43,27).Non “tutto è nulla”, ma “Dio è tutto”.

2. Contare il tempo serve inoltre a percepire i segni della bontà di Dio, di cui imparare a far grata memoria. Fin dalla prima pagina della Bibbia (Gn 1), i giorni sono contati per indicare l’opera di Dio: E fu sera e fu mattina: giorno primoE fu sera e fu mattina: secondo giorno. I giorni sono contati per poter individuare, nella scansione della vita, la bontà divina, che irrompe e crea la vera novità: «Dio vide che era cosa buona». Il cuore saggio è un cuore che sa vedere e raccontare la bontà di Dio che crea cose buone lungo il cammino dell’esistenza.

3. Non mancano, certamente, come non sono mancati quest’anno, momenti brutti e situazioni tragiche. Ciascuno sa ben elencarli: morti, sofferenze e guerre, incomprensioni e delusioni. Tutto questo è la materia prima della grande virtù che il cuore cristiano vive contro ogni possibile “realismo”: la speranza. Quando sentiamo la nostra esistenza presa nella caducità e nella morsa della cattiveria degli uomini, soprattutto siamo invitati a sentirla protesa verso la liberazione, secondo la potente parola di Paolo: «Ritengo infatti che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi. L’ardente aspettativa della creazione, infatti, è protesa verso la rivelazione dei figli di Dio.  La creazione infatti è stata sottoposta alla caducità […] nella speranzache anche la stessa creazione sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi. Non solo, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Nella speranza infatti siamo stati salvati» (Rm 8,18-24). Il gemito del nostro cuore è solidale con il gemito della creazione intera, che soffre per un parto di bene. La fede nell’incarnazione e risurrezione di Gesù Cristo ci fa sperare nella liberazione, ci salva già nella certezza che la caducità è stata riscattata dalla risurrezione di Cristo, di cui attendiamo la piena manifestazione. Se il dolore per il nostro male e la coscienza della finitezza dell’esistenza non divengono attesa del Signore, speranza di liberazione, come potremo vivere il nostro presente? Come potremo sopportare la fatica del presente senza la ferma speranza del bene futuro? «Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso» (Ebr 10,23). Dio è affidabile, possiamo sperare e perseverare. Il Te Deum si conclude con questo atto di speranza: In te, Dómine, sperávi: non confúndar in ætérnum.Per questa speranza, oggi, gridiamo con tutta la Chiesa-Sposa: Vieni, Signore Gesù (Ap 22,20).

4. Nel Vangelo, Gesù esorta a considerare la finitezza della vita come motivo di vera conversione, di attenta vigilanza, perché «i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso» (Lc 21,34). La finitezza è motivo per vivere con responsabilità il presente e nella più ardente carità, che è la virtù che non finisce mai (1Cor 13,13). Pensiamo alla parabola dei talenti (Mt 25,14-30) e soprattutto alla scena del giudizio finale (Mt 25,31-26). La prospettiva del giudizio finale è sempre connessa all’invito a vivere intensamente il presente, per ciò che non muore, nella carità verso i bisognosi. «Il Signore – ammoniva Basilio di Cesarea – ha associato la pigrizia alla malvagità, dicendo: Servo malvagio e pigro (Mt 25,26). […] Dobbiamo quindi temere che anche a noi venga rivolto questo rimprovero nel giorno del giudizio, quando colui che ci ha dato la forza di lavorare ci richiederà le opere corrispondenti a tale dono». Non è permessa la pigrizia nel venire incontro ai fratelli con i quali il Signore si è identificato, come sempre San Basilio insegna: «Bisogna certamente sapere che chi lavora non deve lavorare per provvedere con il lavoro ai propri bisogni, ma per adempiere il comandamento del Signore, che ha detto: Ho avuto fame e mi avete data da mangiare». Vivere intensamente il nostro tempo, la nostra breve giornata, significa lavorare, e si lavora sempre per qualcuno, per amore, e per dare frutto ai doni di Dio, per provvedere nella carità ai nostri fratelli uomini.

Carissimi, siamo chiamati ad essere saggi, come Maria, che «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). Ella custodiva la notizia quotidiana di Gesù per farne memoria e attesa, gratitudine e speranza. Il tempo di Maria è sempre tempo di memoria, di attesa, di sequela. Mariacustodiva nel cuore ciò che riguardava Gesù, certa che è Gesù che custodisce nel suo cuore la verità della nostra vocazione, del tempo che viviamo e della beata speranza che ci muove.

 

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