Omelie Vescovo

Omelia del Vescovo per la Messa del Crisma 2023


Messa del Crisma
Cattedrale di Cagliari, 6 aprile 2023

Carissimi in Cristo,
le rubriche del Messale e i documenti liturgici indicano con chiarezza i due poli di questa celebrazione: da una parte, la benedizione dell’olio degli infermi, dell’olio dei catecumeni e del crisma, dall’altra, l’ampia concelebrazione che manifesta la comunione dei presbiteri con il proprio Vescovo nell’unico e medesimo sacerdozio e ministero di Cristo (cf. Congregazione per il culto, Lettera circolare Paschalis sollemnitatis, 16 gennaio 1988).

Come ricorderanno i confratelli con più anni alle spalle, quest’ultimo orientamento è stato determinato dal Missale Romanum del 1970, che ha introdotto sia il rinnovo delle promesse sacerdotali sia un nuovo Prefazio dedicato al sacerdozio di Cristo nel suo rapporto con il sacerdozio ministeriale. Tale novità faceva seguito a una Lettera circolare della Congregazione per il Clero (Inter Ea, 4 novembre 1969) che auspicava che ogni sacerdote, la mattina del Giovedì Santo, rinnovasse “l’atto con cui si è consacrato al Cristo, con cui ha promesso di adempiere gli obblighi sacerdotali” e “la missione sancita dal sacro ordine, con la quale è stato chiamato al servizio della Chiesa”. L’auspicio della Congregazione per il Clero era di rendere in tal modo più ferma “la vita spirituale e la coscienza del sacerdozio” dei presbiteri.

Questo orientamento va evidentemente connesso al perno tradizionale di questa celebrazione ossia la benedizione degli olii e soprattutto del sacro crisma, il cui uso liturgico per i sacramenti dell’iniziazione cristiana e dell’ordine, oltre che per la dedicazione della chiesa e dell’altare, sottolinea l’intima relazione tra l’evento di Cristo e la Chiesa, tra il mistero e la missione del “consacrato con l’unzione” (Is 61,1; Lc 4,18) e la Chiesa, popolo sacerdotale, regale e profetico. Il presbitero è d’altra chiamato a rappresentare sacramentalmente Gesù Cristo, capo e pastore, per la Chiesa e nella Chiesa.
Possiamo dire che quella che stiamo celebrando è la festa del sacerdozio di Cristo e del popolo sacerdotale nella varietà e reciproca articolazione dei ministeri e carismi. Tutti partecipiamo, secondo la grazia ricevuta, al mistero di Cristo, nel cuore del quale possiamo sempre felicemente ritrovarci.

Fra poco tutti i sacerdoti saranno invitati a rinnovare, dinanzi e insieme al Vescovo, le promesse fatte nel momento dell’Ordinazione sacerdotale. È assai significativo che la conferma della coscienza del presbitero sia connessa al rinnovarsi delle promesse. La promessa è l’atto di volontà (ripeteremo per tre volte l’espressione “Sì, lo voglio”) con cui disponiamo di noi stessi per il presente e il futuro, obbligandoci alla fedeltà nell’adempimento degli impegni assunti. Con la promessa doniamo noi stessi interamente a Dio e alla Chiesa. La nostra vita non viene espropriata forzatamente ma donata liberamente.

La promessa ha un grande valore nelle relazioni tra gli uomini e costituisce una struttura fondamentale dell’esperienza dell’amore oltre che un termine chiave del suo linguaggio. Chi ama, promette. Non a caso, il consenso matrimoniale ha la forma e la consistenza di uno scambio di promesse con i quali i nubendi dispongono per sempre di se stessi nel dono reciproco, al fine di costituire la loro comunione di vita. Chi promette dona se stesso e suscita il dono dell’altro, impegnando l’interezza della propria persona e il futuro: tutto e per sempre.

La promessa è un atto della persona ma si sviluppa dentro una relazione: si promette a qualcuno e per qualcuno. Anche le promesse sacerdotali, quelle di oggi come quelle del giorno dell’Ordinazione, sono interne al dialogo con il Vescovo, facendo seguito alle sue domande, e sono provocate e offerte davanti al popolo di Dio. Le nostre promesse costituiscono la risposta alla chiamata di Dio e della Chiesa, sono la nostra risposta di fede per Dio e per la Chiesa. Nel e per il sì, lo voglio di ciascuno cresce, come nel matrimonio, anche la comunione tra noi.

La consapevolezza del nostro sacerdozio matura man mano che rispondiamo e finché ci vien chiesto, non possiamo smettere di rispondere il nostro sì, lo voglio. Come per Pietro, che non ha risposto una sola volta al Signore che chiedeva il suo amore, ma rispondeva, anche con sofferenza, ogni volta che la domanda veniva posta. Allora il seguimi ricevette la sua sostanza dall’amore che lo impegnava per sempre nel servizio alla Chiesa, fino alla morte con cui avrebbe glorificato Dio (cf. Gv 21,15-19). In verità, cari fratelli, non possiamo smettere di rispondere il nostro sì finché il Signore lo richiede, fino alla fine. Chi si sottrae a questo, forse non spera più nel futuro, ha forse smesso di credere che Cristo è “testimone fedele” (Ap 1,5). Promette con più purezza, mi pare, proprio chi più spera nel futuro, chi più confida nella fedeltà di Cristo e osa puntare tutte le attese su di essa. Serve a tutti noi più amore, con un po’ della sua follia, e più speranza. La nostra promessa ha senso per l’amore che non si tira indietro, e non oppone resistenza alle chiamate del Signore (cf. Is 50,5), che ci raggiungono anche attraverso le domande del Vescovo e del popolo di Dio che ci è affidato e al quale siamo mandati.

Prometteremo di rinunciare a noi stessi per unirci e conformarci intimamente al Signore Gesù. Come possiamo unirci e conformarci intimamente al Signore Gesù, che “ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue” (Ap 1,5), senza rinunciare liberamente, per amore, ai nostri progetti ed equilibri?

Fra poco ci sarà chiesto di lasciarci guidare, nella vita e nel ministero, non da interessi umani, ma dall’amore per i nostri fratelli, “sull’esempio di Cristo, capo e pastore”. È Cristo la grazia da accogliere e l’esempio da imitare. Possiamo promettere perché Dio ci ha raggiunto per primo con la sua promessa. In Cristo tutte le promesse di misericordia e liberazione dall’oppressione del male si compiono (cf. Lc 4,21), “tutte le promesse di Dio in lui sono sì. Per questo attraverso di Lui sale a Dio il nostro «Amen» per la sua gloria” (2Cor 1,20). Possiamo dire il nostro amen perché in Cristo tutte le promesse si compiono. Il nostro sì è dentro il sì di Cristo. Poiché in Cristo le promesse si compiono con fedeltà noi possiamo dire il nostro “lo voglio” con l’interezza e la totalità della nostra persona, senza paura, ma con letizia, gratitudine e libertà.

Che ciò avvenga, che la libertà si sperimenti nell’obbedienza e la fecondità nella rinuncia a se stessi, la ricchezza nella povertà, è la gloria di Dio, che in tal modo può risplendere non solo nei ministeriali ma nella letizia e amorevolezza dei nostri volti.
Benedetto XVI, in occasione della conclusione dell’anno sacerdotale, 11 giugno 2010 diceva: “Dio si serve di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro favore. Questa audacia di Dio, che ad esseri umani affida se stesso; che, pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua – questa audacia di Dio è la cosa veramente grande che si nasconde nella parola ‘sacerdozio’ “.

Carissimi, invochiamo Dio e aiutiamoci di cuore, perché all’audacia di Dio che ci ha scelto corrisponda l’audacia del nostro amore che tutto offre a Cristo per la Chiesa. È Lui il centro e la passione della nostra vita, la ragione della nostra speranza. Lui, “l’Alfa e l’Omèga, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!” (Ap 1,8).

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