Omelie

Conferimento del ministero dell’accolitato. Omelia dell’Arcivescovo

Basilica di Sant’Elena Imperatrice in Quartu Sant’Elena

Conferimento del ministero dell’accolitato
al seminarista Antonio Miccicché

 

Cari amici,
e soprattutto, caro Antonio,

proviamo a trarre dalla Liturgia della Parola che è stata proclamata alcuni suggerimenti per la nostra riflessione, come delle luci capaci di illuminare il senso di quanto sta per accadere.

Questi due figli: uno dice «voglio andare a lavorare nella vigna», perché il padre glielo aveva chiesto, ma poi non va; l’altro invece si mostra all’inizio più resistente, non ha voglia, ma poi si pentì e andò. Certamente, e anche qui devono convenire i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo, è il primo che ha compiuto la volontà del padre. Di cosa sta parlando Gesù? Non sta definendo evidentemente una sorta di galateo familiare – come pure esistevano in quell’epoca e vi sono diverse tracce pure nella stessa Bibbia, cioè il modo corretto di comportarsi con i propri genitori –, sotto c’è qualcosa di più profondo. Pensiamo all’esempio più evidente, a mio parere, che è quello della mamma rispetto a un bambino, soprattutto quando è piccolo, e mostra di avere tante esigenze. Lei non può lasciarsi determinare da ciò di cui essa stessa ha voglia, perché se di notte il bimbo strilla deve alzarsi; perché se ha bisogno di cambiare un vestito, perché nel frattempo le maniche sono diventate corte, va a comprare un nuovo vestito; né può dire «non ho voglia» e lasciare che il piede cresca nelle scarpe di un anno prima. Deve fare qualcosa per quella presenza che cresce, che è legata al suo destino, perché se si ha un figlio si è madri, e perché quel figlio non è una occupazione tra le altre. Non si manifesta qui una esigenza che deve lei saper comporre con altre esigenze, seppure legittime: “io sono donna, ho bisogno di…; ma io devo anche esprimermi…”. Quel figlio è il senso della sua vita. E se almeno una volta una donna ha percepito così suo figlio: come lo scopo della vita, come motivo per cui si è sposata, per cui Dio le ha dato la possibilità di crescere e di avere quel frutto, bene. Essa può aver voglia o non averne ma sarà sempre legata ad uno scopo della vita che coincide con una presenza, con un qualcuno, perché lo scopo della vita – chiamiamolo “vocazione” – è ciò per cui siamo nati. È ciò che definisce il nostro volto davanti agli altri, davanti a Dio, ciò che ci auto-descrive quando ci guardiamo seriamente allo specchio (e per questo la vocazione non può che essere per sempre totale), lo scopo della vita non è “qualcosa” ma sempre “qualcuno”. Finché è “qualcosa da fare”, un obbiettivo da raggiungere, un’immagine da salvaguardare, siamo come il secondo figlio, preda delle sue voglie, prigioniero delle sue voglie, dei suoi sentimenti. Non è un problema di galateo, è un problema di senso della vita, perché il senso della vita, per essere totale, per essere “per sempre”, per essere fecondo, dev’essere un amore e l’amore ha sempre un altro, un “tu”, altrimenti, in fondo, perseguiamo noi stessi, obbediamo solo a noi stessi, restiamo prigionieri delle nostre immagini. San Paolo all’inizio dell’Avvento ci ha esortato a svegliarci per dirci: “prendi contatto con la realtà”, perché la realtà è un “tu” che ti viene incontro, mentre nel sonno siamo prigionieri dei nostri sogni, di noi stessi, non ci accorgiamo della realtà. Ciò che davvero definisce lo scopo della vita è un amore. Ma il vero amore è un “tu” che mi ha incontrato, che mi conosce, che mi ama, che cresce e che mi chiede di esser servito, come un bimbo chiede di essere servito. Finché il mio rapporto con il Signore non è di questa natura, anche il servizio – cioè il ministero – è un’attività tra le altre. Questo può capitare a tutti! Di vivere e gestire il proprio rapporto col Signore come un’attività o come un’esigenza, seppure giusta, ma da comporre con altre, ma non è l’amore della vita! Non è la ragione della vita! Non è l’unica ragione per cui vivere e morire. Perché se non si è disposti a morire, quella non può essere una ragione di vita.

Caro Antonio,

è questo che oggi ti viene chiesto, come a tutti noi, in forza del battesimo, di cui in fondo il ministero che ti viene concesso è come un’articolazione specifica, che tu possa essere abilitato ad aiutare il sacerdote alla Mensa del Signore, a distribuire l’Eucarestia, soprattutto permettere che il Signore raggiunga gli ammalati, le persone sole, che stanno a casa, che sono forse le più affamate di Dio. Questo è possibile farlo nella gioia, che è il vero “test”, solo all’interno dell’avvenimento di un grande amore. Per cui aver detto “eccomi” è come aver detto “eccomi” a questo amore. Non è un atto di volontà che ti costituisce nel rapporto col Signore ma il lasciarti abbracciare dal suo amore che ti rende davvero suo.

Due condizioni vorrei dire perché sia autentico questo servizio, lo dico a te perché lo dico a tutti evidentemente e la prima condizione l’abbiamo sentita sia dal profeta Sofonia che dal salmo responsoriale. Il Signore dopo aver detto un bel “guai” ai capi del popolo, ribelli e impuri, fa la sua grande promessa: “lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero”. Per lasciarsi amare bisogna essere umili e poveri, perché il povero è colui la cui ricchezza è solo ciò che riceve. Il ricco può anche vantarsi di ciò che conquista, del “mi sono fatto con le mie mani, ho sudato molto”. L’uomo davvero povero, il più povero dei poveri, cioè il mendicante, può gioire solo di ciò che gli viene donato, la sua ricchezza è ciò che non ha ma che gli viene dato. Avrai a che fare con l’Eucarestia, con la celebrazione e con la fame degli uomini. C’è da stare attenti! Il vero riferimento è l’altare e la fame degli uomini, perché le due cose si corrispondono. Si è autentici solo in questa povertà. “Io sono nulla, il tesoro della mia vita, Signore, è solo ciò che tu mi dai di vivere”.

La seconda condizione è la preghiera, cioè il fare della vita un cammino, fare del servizio un cammino, e il cammino in questo caso è davvero quello di cui parlavano i Padri della Chiesa: accettare di essere trasformati in ciò che riceviamo, accettare di essere trasformati dalla presenza viva di Cristo, il quale a Natale contempleremo come colui che ha svuotato se stesso per potersi fare simile agli uomini.

Per poter davvero servire gli uomini affamati di Dio, bisogna ancora una volta accettare di svuotare sé stessi, per fare di quella fame e di questa ricchezza, della possibilità del loro incontro, il senso lieto della vita.

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