Giubileo 2025 Omelie Vescovo

Omelia del Vescovo. “Sant’Efisio e la speranza del lavoro: dignità per ogni persona”

Omelia per la 369ª Festa di Sant’Efisio, Patrono principale dell’Arcidiocesi di Cagliari
Nora (Pula), 3 maggio 2025

1. «Il pellegrinaggio di Sant’Efisio, e il nostro con lui, in questa bellissima località di Nora, è segnato quest’anno dalla celebrazione dell’Anno Santo che ci invita ad essere, appunto, “Pellegrini di Speranza”. La croce donata dai detenuti del Carcere di Uta-Cagliari lo manifesta. Con gratitudine pensiamo a papa Francesco che ha indetto questo Giubileo mentre con fiduciosa speranza e ardente preghiera ci prepariamo ad accogliere il Papa che sarà donato alla Chiesa.

La speranza indica lo stato dell’uomo che è “per via”, come in questi giorni, non più fermo ma non ancora arrivato, che ha lasciato alle spalle il passato ed è proteso verso il futuro che promette un bene grande, che ci attira a un “premio” che corrisponde al desiderio di felicità e di verità che è nel nostro cuore. Francesco, nella Bolla di indizione del Giubileo, offre alla nostra considerazione questa chiamata: «La felicità è la vocazione dell’essere umano, un traguardo che riguarda tutti. Ma che cos’è la felicità? Quale felicità attendiamo e desideriamo? Non un’allegria passeggera, una soddisfazione effimera […]. Abbiamo bisogno di una felicità che si compia definitivamente in quello che ci realizza, ovvero nell’amore» (Spes non confundit, 21). Quel che speriamo è davvero una felicità che compia il destino per cui siamo fatti, e ciò può accadere solo nell’Amore che non delude mai. È quest’amore che sant’Efisio ci ha testimoniato, e che continua a predicare col suo sacrificio. L’amore che non delude è solo l’amore più grande della morte. Questo amore non ci lascia soli, ma secondo la promessa di Gesù genera un popolo, una compagnia fedele (cf. Gv 12,14). Nella Passione di Sant’Efisio sono poste in bocca al nostro protettore, proprio su questa spiaggia, poco prima della morte, queste parole: «Concedi, dunque, o Signore, che io conduca a termine felicemente il cammino del mio martirio che per te accetto volentieri. Mi assista la tua misericordia e l’anima mia non trovi alcun ostacolo». Solo il cristianesimo può mettere insieme la morte e la felicità. La vita si compie felicemente non nel possesso di cose e persone, ma nell’abbandono a un amore così grande, nell’esperienza di una misericordia che non rovina nulla ma tutto salva, pur dentro il sacrificio. Siamo liberi dall’arbitrio degli uomini e da tutte le brutte minacce dell’esistenza, solo quando impariamo a sperare nel “giorno della misericordia” (cf. 2Mac 7,29).

La speranza che può sostenere la fatica dei passi dell’uomo e giustificare la sua gioia è fondata sull’avvenimento di Cristo morto e risorto, il cui segno Sant’Efisio mostra nella sua mano perché sia impresso nel nostro cuore. Questo realismo evangelico, che non è una mera utopia, spinge la speranza cristiana a perseguire già in questa terra il bene degli uomini. La speranza cristiana si compie dopo la morte ma rinnova già la storia.

2. I problemi morali, economici e sociali, le guerre in corso, danno ragione di inquietudini profonde, ma non è ammissibile alcuna rassegnazione, quanto semmai l’assunzione di una responsabilità piena di realismo e di speranza. C’è bisogno di un grande rinnovamento e la speranza cristiana è una potente risorsa per una trasformazione sociale a servizio dello sviluppo integrale delle persone e delle comunità, realizzato nella libertà e nella giustizia. Proprio a Cagliari, il 22 settembre 2013, nell’incontro con il mondo del lavoro, papa Francesco esortava ad affrontare le difficoltà non con un vago ottimismo, che può anche dipendere da attitudini psicologiche, ma con la forza della speranza, che «è creativa, è capace di creare futuro». Dobbiamo assumerci la responsabilità di creare una nuova possibilità e un futuro più degno. Scegliendo Cagliari come prima città da visitare, Francesco incontrò anzitutto il mondo del lavoro al quale rivolse un memorabile discorso: «Dove non c’è lavoro, manca la dignità!». Dove manca un lavoro dignitoso è violata la dignità dell’uomo.

Vogliamo riprendere quel messaggio forte di Francesco, di drammatica attualità, a causa del lavoro povero e precario, soprattutto per i giovani e le donne, e per le incertezze di tante crisi aperte. Siamo consapevoli che dobbiamo soprattutto dire il senso e la bellezza del lavoro, che il Figlio di Dio, incarnandosi, ha elevato alla vera dignità.

3. Il lavoro è una delle chiavi fondamentali per aprire la comunità sociale a un futuro di giustizia e solidarietà, di riconoscimento e stima per la dignità dell’uomo. È certo una necessità, ma il lavoro è soprattutto parte del senso della vita su questa terra, è via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale e comunitaria. Mediante il lavoro l’uomo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, e soprattutto «realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, diventa più uomo» (Giovanni Paolo II, Enc. Laborem Exercens, 9). Il lavoro unisce la persona alla comunità, offrendo la propria identità e capacità personale come contributo al bene comune e alla felicità degli altri fratelli. Si lavora sempre per gli altri, per la comunità, per la famiglia, per se stessi e le persone che si amano. Poco prima dello scoppio della terribile guerra di Ucraina, Francesco additava nel lavoro una risorsa per la pace: «Il lavoro è un fattore indispensabile per costruire e preservare la pace. Esso è espressione di sé e dei propri doni, ma anche impegno, fatica, collaborazione con altri, perché si lavora sempre con o per qualcuno. […] Il lavoro è il luogo dove impariamo a dare il nostro contributo per un mondo più vivibile e bello» (Messaggio per 55° Giornata Mondiale per la Pace, 1° gennaio 2022, 4). Nel lavoro comprendiamo che la speranza non è per ottenere qualcosa ma per donare a qualcuno; comprendiamo che senza un lavoro dignitoso è minacciata la dignità dell’uomo e la giustizia della società.

4. In quella circostanza, papa Francesco diceva: «Non c’è speranza sociale senza un lavoro dignitoso per tutti». Cosa rende dignità al lavoro? Permettetemi di ricordare che dignitoso è anzitutto un lavoro sicuro, che non metta a rischio l’incolumità o la vita dell’uomo; adeguatamente remunerato, in modo da provvedere alle esigenze legittime del lavoratore e della sua famiglia; che sappia rispettare l’esigenza del riposo, della festa e gli spazi della famiglia; che promuova la formazione iniziale e i programmi di apprendimento per l’intero arco della vita, perché si sappia stare di fronte ai grandi cambiamenti in atto e del futuro; che sappia coniugarsi con la cura del creato, perché questo venga custodito con responsabilità per le generazioni future, perché la questione sociale e del lavoro è sempre connessa con la custodia della casa comune. Davvero tutto è connesso.

5. La questione del lavoro mette in gioco l’idea di bene comune, che non è la somma delle preferenze o degli interessi individuali o di gruppo e non si realizza massimizzando la soddisfazione dei consumatori o la mera crescita economica. Il bene comune richiede una società giusta, che metta al centro la persona, la famiglia e la comunità, che rispetti il valore del lavoro e ricerchi la sua dignità, che condivida l’importanza morale dei fini a cui sono tesi i nostri sforzi. Il bene comune avvicina tra loro le persone all’interno di una comunità solidale e capace di riconoscimento reciproco. Ricordiamo che durante la pandemia abbiamo apprezzato l’opera di lavoratori spesso trascurati. Il Papa disse: «Le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo» (27 marzo 2020). Dopo cinque anni, abbiamo forse dimenticato quella lezione. Tutti i lavori meritano rispetto e riconoscimento.

6. Vogliamo raccogliere l’invito forte di Francesco per questo Anno Santo: «La comunità cristiana perciò non può essere seconda a nessuno nel sostenere la necessità di un’alleanza sociale per la speranza, che sia inclusiva e non ideologica» (Spes non confundit, 9). Chi spera, cammina e chi cammina cerca compagni di viaggio. La speranza spinge ad allearsi. Questa “alleanza sociale” serve per affrontare il tema della denatalità e delle aree interne e spopolate, per affrontare il tema della povertà e del lavoro. Occorre una alleanza per il lavoro, che stringa reciprocamente i soggetti capaci di un’azione incisiva: sindacati, comunità locali e imprenditori, politici e organizzazioni del terzo settore. La Chiesa, come sempre, può dare il proprio contributo di speranza, di amore e di visione dell’uomo e della società. Quest’alleanza, vera forma di amicizia sociale, occorre che sia inclusiva, in modo che tutti possano partecipare e far sentire la propria voce, contribuendo alla definizione del proprio futuro; realistica, ben fondata cioè sui dati della realtà, come ben diceva Francesco a Cagliari: «Guardare in faccia la realtà, conoscerla bene, capirla, e cercare insieme delle strade, con il metodo della collaborazione e del dialogo, vivendo la vicinanza per portare speranza». Il dialogo e la collaborazione reclamano una profonda lealtà verso i dati della realtà. Il bianco e il nero non cambiamo in base alla collocazione politica o ideologica di chi guarda, ma restano ostinatamente bianco e nero; lungimirante nel guardare in avanti aspirando a grandi soluzioni non a tornaconti di breve durata e respiro. La speranza si apre sempre alle cose più grandi.

Condividiamo le idee e uniamo gli sforzi per creare le condizioni e inventare soluzioni, affinché ogni persona abbia la possibilità, con il proprio lavoro, di contribuire in modo dignitoso alla crescita della vita propria, della famiglia e della società, eliminando i fattori che ne scoraggiano od ostacolano l’ingresso, la permanenza e la crescita nel mondo del lavoro. È questione di dignità e di speranza.

7. Cari fratelli, raccogliamo l’invito di questo Anno Santo a prestare attenzione ai segni dei tempi, per rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura, parlando all’uomo concreto, che vive problemi precisi. Insegna Francesco che «i segni dei tempi, che racchiudono l’anelito del cuore umano, bisognoso della presenza salvifica di Dio, chiedono di essere trasformati in segni di speranza» (Spes non confundit, 7).

Stiamo dentro questo momento storico per trasformare i segni dei tempi in segni di speranza. Ci aiuti, con la sua intercessione e la forza del suo esempio d’amore, Sant’Efisio, nostro glorioso protettore.

Condividi
Skip to content