Omelie

Te Deum dei giornalisti 2020. Omelia dell’Arcivescovo

Cattedrale di Cagliari, 30 dicembre 2020, ore 11

Santa Messa di ringraziamento per i giornalisti
(promossa dall’Unione Cattolica della Stampa Italiana)

 

Carissime sorelle e fratelli in Cristo,
amici dell’Unione Cattolica della Stampa Italiana,

sono lieto di incontrarvi in questa Chiesa Cattedrale per la celebrazione della Santa Messa e il canto del Te Deum nell’Ottava di Natale, spazio di tempo che liturgicamente custodisce la memoria del più grande evento che possa raccontarsi. La Parola eterna del Padre, Colui per il quale, per mezzo del quale e nel quale tutto è stato creato, la ragione ultima, il principio dell’essere di tutte le cose e della nostra vita, Colui che tutto conosce e che è presente a noi più che noi stessi. Il Figlio di Dio, è venuto a farsi figlio dell’uomo. «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria» (Gv 1,14). La notizia di questa nascita non può essere disgiunta dalla meraviglia e dalla contemplazione, dallo stupore lieto e grato che leggiamo nei volti dei personaggi principali dei nostri presepi.

Il Vangelo di oggi dà notizia della presentazione al Tempio del piccolo Gesù da parte della mamma Maria e di Giuseppe. Era presente all’avvenimento anche un’anziana vedova, di nome Anna, che «si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme» (Lc 2,38). Gli uomini che attendevano la liberazione messianica del popolo eletto ebbero modo di conoscere l’avvento di Gesù, e probabilmente la profezia di Simeone e la reazione di Maria, attraverso la narrazione di Anna, che è stata fissata per sempre nella memoria del popolo credente.

Quando ci siamo incontrati nel salone dell’Arcivescovado, il sabato 25 gennaio scorso, era stato appena pubblicato il Messaggio del Santo Padre per la 54a Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, dedicato a un tema particolarmente suggestivo per il vostro impegno professionale: “Perché tu possa raccontare e fissare nella memoria” (Es 10,2). La vita si fa storia. Il bel titolo del Messaggio fa riferimento all’invito di Dio a Mosè di tramandare a suo figlio e al figlio di suo figlio la memoria dei segni operati contro il faraone. Sappiamo bene quanto sia importante per Israele il dovere di raccontare gli eventi fondativi della sua storia e come sia questo uno dei compiti più rilevante dei padri: «Ricorda i giorni del tempo antico, medita gli anni lontani. Interroga tuo padre e te lo racconterà, i tuoi vecchi e te lo diranno» (Dt 32,7). Gli anziani custodiscono la memoria che fonda l’identità di un popolo, e come è triste che proprio gli anziani siano i più colpiti dalla presente epidemia. Una persona e un popolo senza memoria si smarriscono e facilmente diventano preda dei potenti. La memoria è condizione di vera libertà, sviluppo e cambiamento. Come è triste la malattia che toglie la memoria, cancellando il sentimento di una storia, la consapevolezza di sé e dei legami che ci caratterizzano, perché la nostra identità emerge sempre sullo sfondo di una memoria condivisa.

Il Papa osserva che: «l’uomo non è solo l’unico essere che ha bisogno di abiti per coprire la propria vulnerabilità (cfr Gen 3,21), ma è anche l’unico che ha bisogno di raccontarsi, di “rivestirsi” di storie per custodire la propria vita. Non tessiamo solo abiti, ma anche racconti: infatti, la capacità umana di “tessere” conduce sia ai tessuti, sia ai testi. Le storie di ogni tempo hanno un “telaio” comune» (n. 1). Bello! Tessiamo trame sia di abiti che di storie. È nella natura dell’uomo raccontare e trasmettere agli altri, soprattutto ai figli, la memoria della storia. Ed è proprio dell’uomo non accontentarsi del resoconto dei nudi fatti, ma tentarne una spiegazione, proporre un senso e osare un’interpretazione. L’uomo vuol darsi ragione di ciò che accade e così tramanda nel racconto sia la conoscenza dei fatti che la loro interpretazione.

Poche settimane dopo il nostro incontro è cominciata una sfida alla nostra vita davvero storica, epocale. La pandemia ha cambiato le nostre abitudini e il nostro sentimento del vivere, i rapporti interpersonali e con la società, ha portato sofferenza e morte, bloccato le economie più importanti del mondo. Ha posto domande radicali. Tante vicende, soprattutto in questa seconda ondata epidemica, hanno riguardato persone a noi note, molte altre, invece, persone che hanno vissuto una condizione quasi anonima, che diventava semplice numero da annotare nel pomeriggio.

Come è raccontata questa nostra vita aggredita dalla pandemia? E la morte di chi ha avuto sete di aria, nell’assenza di amici e famigliari? Quale memoria stiamo consegnando ai nostri posteri? Sarebbe importante affrontare in modo critico questa domanda.

Fissare questo avvenimento nella memoria del popolo significa anche saper imparare da quanto accaduto, senza consegnare alla dimenticanza le storture viste e tanto dolore. Che la sofferenza di questi mesi non sia inutile, che non venga dimenticata ma diventi motivo di un radicale ripensamento dei nostri stili di vita, delle nostre relazioni e delle nostre società e del senso che riconosciamo alle nostre esistenze, così fragili e così preziose. Ciò che è fragile, come scriviamo nelle scatole, richiede che sia maneggiato con cura. Ciò che è fragile esige la nostra cura, perché prezioso. Come la vita! Bisogna averne cura, perché è fragile e preziosa! È importante saper raccontare questo dramma e la grande capacità dell’uomo di accettarne la sfida, per conquistare una salvezza che è salute, ma anche solidarietà e aiuto ai più poveri. E comprensione del valore del vivere.

Nel Messaggio citato il Papa afferma che «ri-cordare significa […] portare al cuore, “scrivere” sul cuore. Per opera dello Spirito Santo ogni storia, anche quella più dimenticata, anche quella che sembra scritta sulle righe più storte, può diventare ispirata, può rinascere come capolavoro, diventando un’appendice di Vangelo» (n. 4). Alcune vite sembrano davvero un’appendice al Vangelo. Come cattolici dobbiamo sentire l’esigenza di cercare, riconoscere, tramandare queste storie che dentro il buio, per la dedizione nella cura o nella carità, sono state come luci accese, punti infuocati, luoghi di speranza, testimoniando la capacità dell’amore di trasfigurare la vita e accendere il mondo. «Queste storie reclamano di essere condivise, raccontate, fatte vivere in ogni tempo, con ogni linguaggio, con ogni mezzo» (n. 4).

Un resoconto che si limitasse alla conoscenza “scientifica” della situazione, magari tentando di delineare un quadro preciso e concreto delle circostanze socio-culturali e anche ecclesiali di questi mesi, mancherebbe di spessore storico e cristiano se non si facesse carico di raccontare le storie di uomini e donne, medici, infermieri, lavoratori, mamme e papà, gente comune, che anche nella nostra Sardegna sono stati come sillabe della grande lettera di Cristo (cf. 2 Cor 3,3) che lo Spirito Santo scrive sempre nei nostri cuori.

A voi tutti, i miei più sentiti auguri e il nostro ringraziamento.

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